Dopo tanta attesa, la Milano Fashion Week è finalmente arrivata portando con sé tantissimo materiale di discussione, una manna dal cielo per noi commentatori a bordo campo (più forse dietro le quinte nel mio caso). In un periodo in cui, per la moda, l’argomento principale di cui parlare era il cambiamento delle direzioni creative, abbiamo raggiunto la fase più concreta dove le supposizioni possono diventare pareri e le aspettative possono essere soddisfatte o meno da qualcosa di reale. La Milano Fashion Week è stata divisa a metà tra debutti e sforzi faticosi. Da un lato uno spettacolo artistico che ha messo la moda in secondo piano e dall’altro un tentennate appiglio di chi affrontava un cambiamento solo stagionale e non radicale. Lo spettacolo a cui abbiamo assistito, dalla caccia al tesoro di Diesel a Gucci che presenta un film e non solo una collezione, per finire con Miranda Priestley da Dolce&Gabbana che fa parlare più della sfilata stessa, rappresenta un tentativo di dare valore ad una collezione sfruttando l’appoggio mediatico, come se la moda da sola non avesse più nulla da dire. D’altra parte alcuni debutti e alcune collezioni hanno lasciato qualcosa di molto positivo.
Vorrei commentare il mio personale podio. Al primo posto in assoluto tra le passerelle di settembre il grandioso debutto di Bottega Veneta. Uno dei debutti più attesi, quello di Louise Trotter, si dimostra una sorpresa entusiasmante. Un ritorno al significato originale del brand, quello di Bottega nel senso più puro di manifattura e artigianalitá del prodotto. Una rielaborazione dei codici principali del brand: l’intrecciato, le proporzioni calibrate, la maxi clutch in pelle, codici importanti rivisitati dalla nuova direttrice creativa che ha fatto un lavoro eccellente, dando una nuova vita ad un brand che non aveva bisogno di stravolgimenti ma di comprensione e valorizzazione, così come è stato fatto. Al mio secondo posto della Milano Fashion Week troviamo Jil Sander e il debutto di Simone Bellotti. Anche in questo caso il lavoro del nuovo direttore creativo è stato un magistrale recupero dei punti chiave del brand con un risultato che ha portato a look non minimal bensì essenziali, portavoce di una moda che non ha bisogno di aggiungere elementi per sopravvivere ma che punta sulla qualità del prodotto, su tagli austeri che si confrontano con colori accesi, il passato che si contrappone alla novità. Jil Sander diventa in questa collezione primavera estate 2026 una leggera reinterpretazione della purezza geometrica che emana autenticità. Altra collezione degna di nota che si aggiudica uno spazio nel mio podio è quella di Prada, altro capolavoro a mio modo di vedere che sfida le difficoltà del mercato. Una collezione che come tante in passato non ha paura di andare contro corrente ma che allo stesso tempo trova nel passato un appoggio sicuro. Una donna in uniforme da lavoro, coperta da guanti ma che contemporaneamente vuole liberarsi da qualsiasi costrizione. Look contrastanti, da mini shorts a gonne con bretelle che parlano di una donna che si libera da elementi costrittori per ricomporsi con eleganza, ma a sua scelta. Le tendenze primavera estate 2026 sono ancora da definire, in attesa delle sfilate di Parigi, ma una cosa è ben chiara: la moda italiana, a Milano, ha dato forma al tentativo di ripresa dalla crisi. Alcuni brand ci hanno provato con collezioni fresche e alternative altri seguendo la scia del passato certo e confortevole. Bisognerà analizzare però il mercato che ha l’ultima voce nella valutazione della riuscita di un progetto. Non è detto infatti che una collezione esteticamente bella e commercialmente performante sia allo stesso tempo vendibile.